Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune. Mai come oggi la frase di Manzoni risuona nel rumore assordante della narrazione intorno alla guerra a Gaza. Una guerra che, con il passare dei mesi, ha cambiato forma e volto nel racconto mediatico: da tragedia improvvisa a racconto polarizzato, da strage di civili israeliani a crisi umanitaria palestinese, fino alla metamorfosi di uno Stato considerato da molti presidio democratico in Medio Oriente in “stato canaglia”. C’è qualcosa che non mi torna.
I fatti. Il 7 ottobre 2023 Hamas ha lanciato un attacco brutale che ha provocato la morte di oltre 1.300 civili israeliani. Un evento che ha scioccato il mondo e ha di fatto legittimato, agli occhi di Israele e di gran parte dell’opinione pubblica occidentale, una reazione militare. Da allora, le operazioni dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza si sono susseguite con un’intensità crescente. Le immagini che oggi dominano il flusso informativo mostrano però un’altra faccia del conflitto: bambini denutriti, ospedali distrutti, file disperate per una razione di cibo. Una crisi umanitaria che non può essere ignorata, qualunque sia la chiave di lettura politica. E su questo non ci piove. Fosse anche uno stratagemma palestinese (che non escludo). Se ci sono bambini e civili innocenti di mezzo il “mondo” deve intervenire.
Da giornalista, comunque, una domanda resta: quanto è verificabile ciò che vediamo? Le immagini arrivano da Al Jazeera e da media locali palestinesi, che operano, va ricordato, in un contesto sotto il controllo diretto o indiretto di Hamas, dei terroristi di Hamas (non dimentichiamo questo aspetto per nulla marginale). Sul campo mancano fonti internazionali indipendenti: pochi reporter occidentali, zero accesso pieno e continuativo alle zone più colpite. La guerra di Gaza è anche una guerra d’informazione e nel caos non è mai semplice distinguere la verità dalla propaganda.
Israele viene accusata di colpire scuole, ospedali, mercati. Ma davvero possiamo pensare che lo faccia deliberatamente, come fine e non come mezzo? Come strategia e non come conseguenza, tragica, dell’uso di obiettivi civili per nascondere uomini e arsenali? È un interrogativo scomodo perché ci obbliga a guardare oltre la superficie, oltre la narrazione pronta all’uso. Chi si è nascosto tra i civili? Chi ha trasformato luoghi di cura e istruzione in basi operative? È legittimo chiederselo senza per questo sminuire il dramma della popolazione palestinese, che resta vittima, anche, di chi governa con logiche militari e non civili.
Nel frattempo, Israele continua a essere bersaglio di missili lanciati dallo Yemen e da altri Paesi segno che il conflitto è tutt’altro che isolato. Una regione in fiamme, una tensione geopolitica che attraversa l’intero Medio Oriente. E in questo scenario complesso, chi racconta ha la responsabilità, prima ancora che il dovere, di tenere accesa la luce del dubbio. La guerra non può e non deve essere la soluzione. Ne resto convinto. Ma dobbiamo resistere alla tentazione del tifo, della semplificazione, della comoda indignazione selettiva. Anche perché quello che sta accadendo è una polarizzazione che ha visto ieri cinquanta bambini ebrei francesi, di età compresa tra 10 e 15 anni, essere obbligati a scendere da un aereo perché cantavano canzoni ebraiche. «Israele è uno stato terrorista», le parole che risuonano. Non so se si è già varcata la soglia del paradosso. Ma poco ci manca.
Di certo posso ripetere: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune. Valeva allora. Vale, forse di più, oggi.