Faccio una doverosa premessa: credo che la pace sia l’unica via percorribile nel mondo. Tutto il resto – guerre, conflitti, escalation di violenza – non fa altro che generare morte, distruzione e cicli eterni di vendetta. Una spirale che travolge intere generazioni, spezza famiglie, sposta l’asse delle coscienze. Ma tutto questo, purtroppo, non sembra bastare più a farci ragionare con lucidità.
Lo noto in questi giorni, con crescente inquietudine, osservando il dibattito social e sociale che si è acceso, spesso infuocato, altre volte solo superficiale, attorno alla questione israelo-palestinese. Una questione drammatica, stratificata, che richiederebbe studio, conoscenza e umiltà. E che invece, troppo spesso, viene schiacciata dentro slogan, prese di posizione impulsive e guerre di commenti.
Un riconoscimento che divide
La notizia che il Regno Unito si avvia al riconoscimento della Palestina come Stato ha generato nuove reazioni, discussioni e, come sempre, polarizzazioni. L’ultimo episodio del mio podcast Scalo a Grado – dedicato proprio a questi temi – ha suscitato molte reazioni, alcune polemiche, altre argomentate con grande intelligenza. Ho ricevuto messaggi via WhatsApp e Messenger, molti dei quali critici ma sinceramente costruttivi. Li ho apprezzati. Perché servono spazi in cui non si urla ma si ragiona.
Anche per questo, oggi, voglio riportare qui alcune domande aperte. Perché tra chi legge questo blog – e segue da tempo il mio lavoro – ci sono anche esperti di diritto internazionale, studiosi, giornalisti, operatori della comunicazione. Persone che possono aiutare a fare chiarezza.
Quando uno Stato è uno Stato?
La domanda di fondo è semplice solo in apparenza: la Palestina può essere oggi riconosciuta come Stato? Alcuni obietteranno che la questione che viene posta contiene già un errore storico. Sono tante le nazioni che l’hanno già riconosciuta come Stato. Ma voglio andare con ordine. Il diritto internazionale ci fornisce alcuni criteri chiave, stabiliti dalla Convenzione di Montevideo del 1933. Perché uno Stato esista, deve avere:
- Una popolazione permanente → ✔️ E nel caso della Palestina c’è.
- Un territorio definito → ✔️ c’è, seppur conteso (Cisgiordania, Striscia di Gaza, Gerusalemme Est).
- Un governo → ❓ qui le cose si complicano.
- La capacità di entrare in relazioni con altri Stati → ✔️ esiste: l’Olp rappresenta la Palestina presso l’Onu e molti Paesi hanno relazioni diplomatiche.
Il nodo centrale, dunque, resta il governo. Perché il controllo dell’area oggi è frammentato. Provo a riassumerlo (e se sbaglio, correggetemi):
- Striscia di Gaza: controllata da Hamas.
- Cisgiordania: sotto l’amministrazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), guidata da Fatah.
- Rappresentanza internazionale: affidata all’Olp, l’organizzazione politica che dovrebbe rappresentare tutti i palestinesi.
Ma chi può davvero governare lo Stato di Palestina?
La domanda non è retorica. È una questione politica, giuridica, morale. Perché nel momento in cui si riconosce uno Stato, si riconosce implicitamente un’autorità legittima che ne rappresenta il popolo, ne garantisce l’unità, ne esercita la sovranità. E oggi, questa autorità univoca non c’è. Ci sono invece divisioni profonde, storiche, armate.
E poi c’è Hamas. Che è, ricordiamolo, l’ala palestinese dei Fratelli Musulmani. Un’organizzazione con una struttura politico-religiosa e un braccio armato. Che ha tra i suoi obiettivi dichiarati la liberazione della Cisgiordania occupata e la distruzione dello Stato di Israele. Una posizione inaccettabile per la comunità internazionale e incompatibile con qualunque ipotesi di pace duratura.
«Nel suo statuto del 1988 – si legge in un articolo di approfondimento dell’Ispi -, Hamas ha affermato che la Palestina è una patria islamica che non potrà mai essere ceduta a non musulmani e che condurre una “guerra santa” per sottrarre il controllo della Palestina a Israele è un dovere religioso per i musulmani palestinesi».
E senza dimenticare la “rete regionale” di cui fa parte l’Iran, paese leader di attori statuali e non statuali della galassia sciita come la Siria di Bashar Al-Assad e il gruppo islamista sciita Hezbollah in Libano.
L’era dell’emotività
In questo contesto, la comunicazione gioca un ruolo cruciale. Ma non sempre in senso positivo. Viviamo in un tempo in cui tutto è istantaneo. Le opinioni si misurano in like, cuori, condivisioni, sondaggi dell’ultimo minuto. I politici – e non solo – sembrano modellare le proprie dichiarazioni sull’emotività collettiva, sul sentimento del giorno. Sull’onda che tira.
È la logica del consenso immediato. Quella che spinge a dire qualcosa, qualsiasi cosa, purché generi visibilità. A non disturbare mai troppo. A non approfondire mai abbastanza. Perché approfondire richiede tempo, rigore, fatica. E, soprattutto, espone al rischio di non piacere.
Così, se qualcosa va storto, scatta la polarizzazione. Sei pro o contro. Sei filo-israeliano o filo-palestinese. Sei sionista o terrorista, sei pacifista o guerrafondaio. Una semplificazione binaria che non fa altro che oscurare la complessità. Che è invece l’unico luogo dove può nascere una vera comprensione.
La questione israelo-palestinese non ha soluzioni facili. Ma ha bisogno, più che mai, di persone che sappiano discuterne con intelligenza, empatia e profondità. Grazie a chi vorrà lasciare un contributo. Anche critico. Anche scomodo. Perché solo nel confronto sincero può nascere una riflessione vera. E, forse, un passo verso quella pace che oggi appare tanto lontana, ma che deve restare il nostro orizzonte possibile.