Nel caos di Gaza non si combatte solo con le armi. Esiste un altro fronte, silenzioso ma devastante: quello della manipolazione digitale. In questi giorni ho visto video generati con l’AI, voci ricostruite, immagini create per alimentare odio, confusione, propaganda. I deepfake non sono più un gioco tra amici, nonostante corrano in questo momento gli strabilianti risultati di Veo e Google. Dobbiamo metterci in testa una cosa: sono strumenti che vengono usati per spostare opinioni, polarizzare il dibattito, alimentare tensioni. E il brutto della faccenda è che spesso gli stessi giornalisti si facciano veicolo di falsi contenuti.

C’è un serio e drammatico rischio: perdere il contatto con la realtà. Perdere la verità. Oggi serve senso critico e verifica perché non tutto ciò che vediamo è reale e non tutto ciò che circola è vero. E dovremmo tutti essere più cauti nella condivisione dei contenuti. E ripeto: a partire da noi giornalisti. Verificare è un dovere etico.

La disinformazione è una ferita che sta colpendo tutti, anche chi crede di esserne immune. In tempo di guerra la prima vittima è sempre la verità. Quello che fa più male è che la diffusione di disinformazione ha effetti tangibili, influenza le percezioni pubbliche, alimenta tensioni sociali e complica gli sforzi diplomatici. Senza dimenticare la sfera della sicurezza delle informazioni. Una cosa è certa: serve una maggiore alfabetizzazione mediatica tra gli utenti.

Deepfake: la nuova arma del conflitto

Durante la guerra tra Israele e Hamas, l’uso di contenuti generati dall’intelligenza artificiale ha raggiunto livelli senza precedenti. Video e immagini manipolati sono stati diffusi con un obiettivo chiaro: suscitare emozioni, distorcere la realtà e sostenere narrative di parte. Ad esempio, sono circolate immagini di bambini tra le macerie, create artificialmente per evocare empatia e indignazione, senza alcun legame con eventi reali. Questo non vuol dire che non ci sia devastazione a Gaza. Ma va anche detto che l’azione di Israele è in questa fase indirizzata a stanare i terroristi di Hamas – perché di questo stiamo parlando, di terroristi -. Uomini che senza scrupolo si servono di strutture pubbliche come scuole e ospedali. Per non parlare di scudi umani. C’è una narrazione che è stata smontata dal direttore del Riformista Claudio Velardi (guarda il video): si preferisce dire al mondo che il cattivo è Israele ma ad affamare Gaza sono i terroristi di Hamas.

Ma torniamo al deepfake. Vi consiglio a questo proposito la lettura del rapporto del Center for Strategic and International Studies (CSIS) intitolato “Crossing the Deepfake Rubicon” che analizza l’evoluzione delle minacce legate ai media sintetici generati dall’intelligenza artificiale (IA), evidenziando come questi strumenti siano diventati sempre più sofisticati e accessibili, rappresentando un pericolo concreto per la sicurezza nazionale e la fiducia pubblica. Di fronte a questa ondata di disinformazione, sono emerse iniziative per contrastarla ma, come ha osservato David Doermann, esperto di IA, ogni nuovo strumento di rilevamento può essere rapidamente aggirato da tecniche più sofisticate di manipolazione (il post pubblicato dall’università di Buffalo).

Il ruolo cruciale del giornalismo

In questo contesto, il giornalismo assume una responsabilità ancora maggiore. La verifica delle fonti, l’analisi critica dei contenuti e la trasparenza sono fondamentali per contrastare la diffusione di false informazioni.

Un giornalista che voglia arginare la diffusione dei deepfake deve innanzitutto partire dalla verifica dei contenuti. Questo richiede controlli incrociati, analisi dei metadati e confronto con fonti indipendenti. Bisogna analizzare i fotogrammi, rilevare manipolazioni, scansionare la rete alla ricerca di contenuti simili. E questo lavoro va comunque raccontato al pubblico: come si è giunti a una verifica, i metodi utilizzati e le fonti. Tutto questo rafforza la fiducia del lettore. Avere una chiarezza metodologica è già una forma di contrasto alle fake news.

Quando ci si trova davanti a un deepfake che mina la reputazione di una persona o altera gravemente la percezione di un fatto, è doveroso agire, raccontare la verità, smascherare il falso, denunciare. Il giornalista non può restare a guardare. In un mondo dove l’immagine può mentire, diventa essenziale che la parola continui a dire la verità.

By Giovanni Villino

Giornalista professionista e siciliano creativo. Redattore del Giornale di Sicilia on line. Già supervisore editoriale e vicecoordinatore di redazione di Tgs, Telegiornale di Sicilia. Appassionato di social media e sostenitore del citizen journalism.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *