È bastato un errore banale per scatenare un putiferio sull’uso dell’intelligenza artificiale nelle redazioni giornalistiche. Un redattore ha pubblicato un articolo generato con l’aiuto dell’IA dimenticando di cancellare la chiosa finale automatica, quella che di solito recita “vuoi trasformare questo articolo in…” e da lì si è aperta la tempesta perfetta. Titoli scandalizzati, accuse di superficialità, domande etiche e morali sul ruolo dell’uomo e della macchina nel giornalismo… e mi fermo qui perché così vi evito ulteriori sofferenze.
Dentro questa polemica ritengo ci sia tanta ipocrisia perché la verità è che l’intelligenza artificiale è già entrata stabilmente nelle redazioni, siano esse grandi o piccole. E tutti la usano: chi per scrivere bozze, chi per titolare, chi per analizzare trend o verificare dati. Ma attenzione: prova a chiedere, senza troppi giri di parole, se l’IA viene usata… buona fortuna! Quasi nessuno lo ammetterà apertamente. Si è creata da troppo tempo ormai una sorta di shadow AI (artificial intelligence), ovvero un utilizzo sommerso e non dichiarato che cresce in silenzio, utilizza dati sensibili e ignora i rischi legati all’uso degli algoritmi e dei dati stessi. C’è una complessità di pericoli proprio in relazione all’uso di modelli generativi non regolamentati. Ma l’importante è fingere che il giornalismo resti immune dalla rivoluzione tecnologica.
A mio parere il problema non è l’uso dell’intelligenza artificiale ma l’assenza di regole chiare e condivise. Ingigantire l’errore di un singolo redattore è sbagliato quanto sminuire il tema nel suo complesso. Serve equilibrio: riconoscere che questi strumenti possono migliorare il lavoro giornalistico ma anche che vanno incanalati in un perimetro etico e operativo preciso.
Il vero rischio, quindi, non è l’intelligenza artificiale che scrive. Il vero e grande pericolo per il mondo dell’informazione è lo stesso sistema in cui i cronisti e i redattori operano, quello che chiede ai giornalisti di fare sempre di più con meno: meno tempo, meno risorse e meno personale. Ed è lì che scatta la trappola: l’IA diventa scorciatoia, stampella o, peggio ancora, sostituto del cronista, così come del redattore.
L’intelligenza artificiale può essere un alleato prezioso del giornalismo. Come detto, può aiutare nell’analisi dei dati, nella verifica delle fonti, nella ricostruzione dei contesti complessi. Può liberare tempo, migliorare la precisione e ampliare la capacità di lettura dei fenomeni. Ma solo se resta sotto il controllo umano con trasparenza e responsabilità.
L’errore del redattore è stato ingenuo, certo. Ma più grave è a mio parere il comportamento di chi finge che quell’errore non sia figlio di una pratica diffusa. Fingere che il giornalismo possa ignorare l’IA è come voler fermare il vento con le mani. Serve invece imparare a orientarlo perché continui a soffiare nella direzione giusta: quella della qualità, della verità e della fiducia dei lettori.
Alla fine dei corsi di informazione che tengo per l’Ordine dei giornalisti cito sempre un adagio: «Quando soffia il vento del cambiamento, alcuni costruiscono muri, altri mulini a vento». E per noi che produciamo il pane dell’informazione… è fondamentale sapere su cosa orientarci.
