Più vado avanti con l’età e meno mi piace perdere tempo. Un concetto complesso, lo so. Cos’è una perdita di tempo? Difficile da definire. Io, ad esempio, nel tempo sprecato annovero il frequentare persone che feriscono, che non sanno incoraggiare o elogiare sinceramente. Tempo sprecato anche il vivere con l’illusione di potere cambiare luoghi e situazioni che puntano “fisiologicamente” verso il basso. Così come è tempo perso immaginare di vincere il provincialismo con una rivoluzione culturale. Sì, perché il provincialismo non è una questione geografica ma mentale.
Mi ha fatto sempre sorridere quella tendenza a cercare un volto noto per legittimare un’idea, un evento o un progetto. Come se il valore dovesse arrivare da fuori. Per certi versi è la vittoria della visibilità sulla sostanza. Molti hanno definito il provincialismo una malattia. Una forte miopia che impedisce di riconoscere la ricchezza che c’è attorno. Per questo si parla tanto di contenitori e poco di contenuti con un rumore costante che soffoca le voci nuove.
Provincialismo e perdita di tempo
Il provincialismo, in Sicilia, assume poi una forma particolare perché, al netto dell’insularità che già condiziona di per sé, non è soltanto una questione culturale ma una condizione quasi esistenziale. È l’abitudine (meglio rassegnazione?) di pensare che il valore arrivi da altrove, da chi ha già un nome, da chi è “salito” a Milano o a Roma. Palermo, in questo, è un laboratorio perfetto: è una città che sa generare bellezza ma spesso non la riconosce se non è accompagnata da un volto noto, da un timbro d’autore o da un sigillo esterno che ne confermi la grandezza.
E così si organizzano eventi per mostrare più che per costruire, si cercano ospiti per farsi vedere e non per farsi capire. In questa terra si fatica ad ascoltare chi continua a lavorare, in silenzio, ogni giorno. Ecco, anche su questo fronte ho deciso di non perdere tempo. Combattere il provincialismo è tempo perso perché la vera rivoluzione culturale passa dalle scelte personali. E nel mio piccolo mi sono sempre impegnato. Ho cercato di dare valore a ciò che nasce qui, ho voluto riscoprire la forza del pensiero locale come visione universale.
La via della resistenza
Ho deciso di fare resistenza attiva a una mentalità. La stessa che si accontenta del già detto, che celebra sempre i “soliti” nomi e che confonde la visibilità con il valore. Il giornalismo ha una forza intrinseca: costruisce senso. E lo spostando lo sguardo e restituendo dignità a ciò che non fa rumore.
Difficilmente troverete sui miei profili una foto con il potente di turno. Piuttosto preferisco il selfie con il volto “qualunque” che ha una storia straordinaria e unica alle spalle. L’importanza di una notizia non deve essere valutata sulla base della popolarità di chi la pronuncia ma alla luce della verità che contiene. Dovremmo tutti impegnarci a raccontare ciò che vale, non ciò che “funziona”. Essere giornalista in un contesto provinciale, come può esserlo Palermo, o qualsiasi altra città che vive di cerchie e riconoscimenti, significa accettare una sfida doppia: raccontare e, insieme, resistere. Scrivere al centro della provincia mentale, guardando oltre la provincia stessa.
