Oggi in molti amano definirsi pionieri del podcast. Ma, a ben guardare, la storia ci racconta qualcosa di un po’ diverso. I veri precursori avevano già acceso i microfoni quando il termine “podcast” nemmeno esisteva. E così mentre mi preparo a tagliare il traguardo dei quattro anni di trasmissioni del mio “Scalo a Grado“, ho ritenuto opportuno rispolverare un po’ di informazioni su questa meravigliosa forma di comunicazione che attraverso un linguaggio autonomo è capace di mescolare giornalismo, storytelling e intimità sonore.
Come nasce il termine podcast?
Il merito va al giornalista Ben Hammersley che in un articolo pubblicato sul The Guardian nel febbraio del 2004, ha coniato per la prima volta la parola. Stava cercando di descrivere un nuovo fenomeno di trasmissioni audio scaricabili e fruibili on demand. Nella sua riflessione, Hammersley ipotizzava diversi nomi per definire il formato nascente: da “audioblogging” a “guerrilla media”. Alla fine si è arrivati a “podcasting” che si impose rapidamente. Un termine frutto dell’unione di due parole: “iPod” (il celebre lettore MP3 di Apple) e “broadcast” (trasmissione).
Quando è nato il primo podcast?
Possiamo fissare la nascita del podcast, così come lo conosciamo oggi, tra il 2003 e il 2004. E il tutto si deve all’inventiva di Adam Curry, ex VJ di MTV, e Dave Winer, uno dei pionieri della tecnologia RSS (Really Simple Syndication). Insieme avevano sviluppato un sistema che avrebbe cambiato per sempre il modo di distribuire contenuti audio online: un software chiamato iPodder. Quanti ricordi… L’idea era semplice ma rivoluzionaria: permettere agli utenti di scaricare automaticamente file audio dai propri siti preferiti e di sincronizzarli con l’iPod, allora il simbolo per eccellenza della musica digitale. Non serviva più collegarsi manualmente a un sito per ascoltare una trasmissione, bastava abbonarsi a un feed RSS, e ogni nuovo episodio arrivava da sé, pronto per essere ascoltato ovunque. Oggi sembra un fatto quasi ovvio. Vi assicuro che ai tempi era rivoluzionario…
Il primo podcast in assoluto è quello realizzato da Christopher Lydon nel 2003. Consisteva in una serie di interviste con protagonisti del mondo della cultura, della tecnologia e della politica. Lydon, ex giornalista della radio pubblica americana e volto noto di The Connection su NPR, aveva iniziato a pubblicare sul suo blog una raccolta di conversazioni in formato audio, distribuite tramite feed RSS grazie al supporto tecnico di Dave Winer. Gli episodi affrontavano temi di attualità, innovazione e riflessione sociale, con lo stile calmo e approfondito che sarebbe poi diventato tipico del linguaggio podcast. L’obiettivo non era semplicemente informare, ma creare un dialogo lungo e ragionato, lontano dai ritmi serrati dei media tradizionali.
Dall’audio alla visione: l’evoluzione del podcast
Il podcast, come detto, nasce quindi come voce libera per pochi appassionati di tecnologia: c’era il file audio scaricabile, registrati spesso in modo molto artigianale che veniva diffuso tramite feed RSS. I più ricchi ascoltavano il tutto sull’iPod gli altri, come me, sul computer. L’essenza era la semplicità: una voce, un microfono, una storia.
Nell’ultimo decennio, con l’arrivo degli smartphone e delle piattaforme di distribuzione (come Apple Podcasts, Spotify e Google Podcasts), il podcast si è trasformato in un fenomeno di massa. L’ascolto è diventato immediato, mobile, quotidiano. Si è aperto a nuovi generi. Si va dal giornalismo narrativo alla divulgazione scientifica, dalle inchieste alle fiction sonore. Nei primi anni la qualità è cresciuta tantissimo, la produzione si è professionalizzata e lo stesso linguaggio ha trovato la sua maturità. Ma proprio nel mezzo di questa crescita… arriva una nuova mutazione: il videopodcast. Il motivo è semplice: le piattaforme social da YouTube a Spotify Video, fino a TikTok hanno cambiato le abitudini di fruizione. Il pubblico non solo vuole ascoltare, ma anche vedere chi parla. Il volto del conduttore, i gesti, lo sguardo. C’è chi vede in questa nuova formula una sorta di estensione, un punto d’incontro tra la radio e la tv digitale. A mio parere essere passati dall’intimità della voce all’immediatezza dell’immagine… ha portato a un impoverimento dei contenuti. Molti creatori che nascono come podcaster audio e poi approdano alla forma video per ampliare il pubblico perdono qualcosa. Sfruttare gli algoritmi visivi delle piattaforme per trasformare il racconto in un’esperienza più immersiva non sempre è un esperimento riuscito.
I quattro anni di Scalo a Grado
A novembre il mio podcast, Scalo a Grado, compie quattro anni di trasmissioni. Un traguardo importante per un progetto nato nel 2021 per creare uno spazio libero di approfondimento con una comunità di ascoltatori affezionati. Il titolo, Scalo a Grado, è un omaggio alla celebre canzone di Franco Battiato contenuta nell’album L’arca di Noè (1982). Come nel brano, anche nel podcast lo “scalo” diventa un luogo simbolico: un punto di passaggio, di riflessione, dove fermarsi un momento per osservare il mondo con occhio critico e mente aperta.
In quattro anni di pubblicazioni, con Scalo a Grado ho raccolto migliaia di ascolti e prodotto decine di ore di contenuti originali, suddivisi in episodi che hanno affrontato e continuano ad affrontare la cronaca, la cultura digitale, la società contemporanea e la vita quotidiana. Un viaggio attraverso le parole, le voci e le idee guidato dal desiderio di comprendere e raccontare la complessità del nostro tempo. I temi spaziano dall’attualità alla tecnologia, dalle trasformazioni culturali alle storie di vita vissuta.
Distribuito su tutte le principali piattaforme e tra queste Spreaker, Spotify, Apple Podcasts, Google Podcasts, Scalo a Grado continua a crescere, episodio dopo episodio, come un porto aperto a nuove storie e nuovi ascoltatori. Dopo quattro anni, ritengo che la rotta sia ancora quella giusta: continuare a salpare, con la curiosità di chi non smette mai di fare scalo nella realtà.
